17 mar 2011

Un tappeto persiano che è anche simbolo dell'unità d'Italia

Per rimanere in tema con la data odierna: anniversario dei 150 anni dell'unità d'Italia, e parlare al tempo stesso di tappeti, non c'è altro modo che parlare del famoso "tappeto di caccia" safavide custodito al Museo Poldi Pezzoli di Milano e che rappresenta nel suo ritrovamento proprio l'unità d'Italia. Questo tappeto realizzato in Persia nel 1542-43, è uno dei rarissimi esemplari datati e firmati della produzione artistica della dinastia safavide persiana e fu ritrovato all'interno del Quirinale nel 1870 dopo la presa di Porta Pia, quando questo era ancora la residenza estiva del Romano Pontefice. Secondo la storia ufficiale il tappeto fu ritrovato diviso in sette pezzi (sette come i regni che i Savoia si apprestavano a unificare: Regno di Sardegna, Regno Lombardo Veneto, Ducato di Modena, Ducato di Lucca, Gran ducato di Toscana, Stato Pontificio, Regno delle Due Sicilie) e privo di alcuni frammenti (non se ne sa il motivo e non se ne conoscono le vicissitudini). Per volere della regina Margherita di Savoia il tappeto venne successivamente restaurato con un sapiente e meticoloso intervento di recupero, nel quale vennero unite le parti esistenti e ricreati i diversi frammenti mancanti, il tutto però eseguito purtroppo con la tecnica del punto arazzo, (allora in Piemonte e nel resto d'Italia non si conoscevano le tecniche di annodatura). Le intricate vicende del tappeto di caccia si susseguirono ancora per molti anni fino a quando nel 1923 giunse al Museo Poldi Pezzoli dove tutt'oggi è in esposizione permanente insieme ad altri esemplari interessanti che vengono affiancati a rotazione.

Visitate il Museo Poldi Pezzoli. link: http://www.museopoldipezzoli.it/

4 commenti:

Un tappeto che conoscevo ma di cui ignoravo la storia.... grazie.

Francesco de' Manzano

Il tappeto di caccia , ritrovato in frammenti al Quirinale, e' uno degli esempi piu' eclatanti dell'arte Safavide. Dobbiamo ringraziare la regina Margherita per il restauro in quanto fu donna di grande cultura e magnificenza.

Volevo postare questo commento preparato anni fa in occasione dell'esposizione dell'intera collezione di annodati del "Poldi Pezzoli".

Questo tappeto, definito “a medaglione e scene di caccia”, è il fulcro della mostra organizzata dal Museo Poldi Pezzoli. Infatti, se dopo molti anni possiamo ammirare l’intera collezione del Museo, lo dobbiamo alla presentazione del restauro operato sul preziosissimo reperto. Negli anni ottanta, John Eskenazi individua in un frammento parte della bordura di questo esemplare. Grazie ad Alessandro Bruschettini, proprietario del frammento, che lo ha donato al museo, è stato possibile ricomporlo, sovrapponendolo al restauro esistente. L’esemplare ha una travagliata storia. Forse donato al papa, è ritrovato nelle stanze del Quirinale successivamente all’ingresso italiano in Roma nel 1870. Tagliato in pezzi (6 o 7), fu ricomposto, restaurato e donato da Vittorio Emanuele III° al Demanio a seguito dello sgombero della villa Reale di Monza.
Il tappeto, che presenta la firma di “Ghyas-el-Din-Jami (città del Khorassan), riporta una datazione non inequivocabile, perché poco leggibile, che a volte è interpretata come 929 altre 949, corrispondenti rispettivamente al 1523 o 1543 dell’era cristiana. Se fosse esatta la prima, si tratterebbe del tappeto più antico datato conosciuto, superando il tappeto “Ardebil” che è datato 1539. Il tappeto misura 335x682 centimetri, ed è annodato, su orditi in seta, con nodi asimmetrici in lana e cotone, per le parti bianche, con una densità media di 4100 n/dm². La tramatura è in cotone e passa tre volte dopo ogni fila di nodi. I colori, nelle varie sfumature, sono 17. Attribuito a Tabriz, dubbi sono stati sollevati da alcuni autori. Primo, il tipo di nodo non in uso in quella città, secondo, il fatto che Tabriz fu spesso occupata all’epoca dai turchi ottomani, poco propensi a disegni naturalistici. Le ultime tesi propongono Qazvin o Tabriz, con quest’ultima favorita sulla scorta di alcune tesi stilistiche che accomunano il medaglione e i cantonali ad analoghi e coevi prodotti Ushak, spesso usati come modelli nei Tabriz.
Il disegno ci mostra un campo blu scuro su cui risalta, assieme ai quattro cantonali da lui derivati, un medaglione centrale, a fondo rosso, a sedici punte con pendenti. All’interno, una fitta decorazione floreale è arricchita da uccelli e dal “collare di nubi”, motivo nastriforme di origine cinese. Sul campo, personaggi a cavallo, armati d’arco e frecce, inseguono animali ed uccelli; il tutto uniti tra loro da una sorta di grata ornata da una miriade di fiori. Tutti i personaggi artefici di questo racconto sembrano fluttuare, secondo una visione “onirica”, aerei, senza peso e senza tempo, attorno al medaglione, bloccati e contenuti dalle bordure che pongono un limite al loro cavalcare. Le cornici, in parte ricostruite con tecnica ad arazzo, sono piuttosto rigide. Nella più grande, un insieme di ornamenti di tipo “Herat”, sono disposti in fila, facendoli sembrare “stemmi araldici”. Un cartiglio, posto al centro del medaglione recita: "Per le fatiche di Ghyas el Din Jami quest'opera rinomata fu condotta a sì splendido compimento nell'anno 949 (929)". Il manufatto ci racconta tutta una simbologia cara alla tradizione islamica. Il giardino del Paradiso, la lotta contro il male, rappresentato da animali selvaggi, gli esseri eroici che lo combattono in una lotta che non ha né spazio né tempo, né vincitori né vinti.

Una curiosità che non sapevo e che mi ha segnalato Boralevi: pare che i restauri eseguiti con tecnica ad arazzo siano stati effettuati nel laboratorio di tale Pierre GENTILI (tapissier pontifical), autore di un curioso volumetto intitolato: "Sur l'art des tapis. Détails historiques", Rome 1878 in cui si parla però di arazzi.

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